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La famiglia e l’infanzia

Nasce a Rovereto, nel Trentino, allora sotto l’Austria, il 24 marzo 1797. È il secondogenito di Pier Modesto, patrizio del Sacro Romano Impero, e di Giovanna, dei conti Formenti di Biacesa sul Garda.

Della propria data di nascita, egli stesso scriverà nel Diario personale: «Col farmi Iddio la grazia di venire alla luce la vigilia della festività di Maria Vergine Annunziata, mostrò di volermela dare per mia madre e protettrice, quale sempre la sperimentai, benché io le sia stato sempre un cliente e figliuolo ingratissimo. Possa ora incominciare a corrispondere d’amore alla mia carissima madre, ed amarla come mi propongo in eterno>>. Proponimento non necessario, perché era sempre stato devotissimo della Madonna.

L’annotazione continua: «Ancor più la bontà di Dio, che per primo mi ha amato, mi beneficò col fare che il giorno 25 del medesimo mese, festa di Maria Vergine annunziata dall’Angelo, io rinascessi nel salutare lavacro del Samo Battesimo amministratomi nella Chiesa Arcipretale di San Marco in Rovereto».

I Rosmini provenivano dalla frazione Piazzo di San Pellegrino nel Bergamasco, ma erano a Rovereto già dal secolo decimo quinto.

A metà del Settecento erano forse la famiglia più cospicua della città per censo, abili industriali nell’arte della seta.

Il titolo di nobiltà era stato concesso dall’imperatore Massimiliano II nel 1574; un fidecommesso, poi, venuto al nonno di Antonio da Benedetto Serbati per via di madre, fece aggiungere al cognome “Rosmini” anche quello di “Serbati”.

Un’infanzia serena, la sua, in un ambiente di virtù patriarcali, governato da una madre intelligente e amorosa. Nicolò Tommaseo, che la conobbe nelle sue soste a Rovereto, scriveva anni dopo a Rosmini: «Voi avete per madre la più rara donna ch’io mai conoscessi. La sua prudenza, la sua modestia, la sua affabilità, la sua religione, il suo amore per i figli, la sua dolcezza con tutti mi sorprese, mi rapì, e risvegliò nel mio seno la più alta venerazione e meraviglia».

Accanto a lui, la sorella primogenita, Margherita Giuseppa, di tre anni maggiore: spiritualmente molto affine a lui; entrerà poi tra le Figlie della Carità della Canossa. Terzogenito Giuseppe, di carattere meno felice.

Un posto molto importante nella vita del giovane Rosmini lo occupa un fratello del padre, lo zio Ambrogio, buon intenditore di lettere e di arte, pittore di notevole valore ed architetto di buon gusto. Il fanciullo ne aveva una gran simpatia: ne faceva il confidente dei suoi piccoli segreti e lo considerava come uno dei suoi maestri.

Circa gli studi alle elementari, Rosmini stesso scrive, sempre nel Diario personale, per l’anno 1804: «Sulla fine di quest’anno scolastico mio Padre mi mandò alle scuole pubbliche elementari di Rovereto per suggerimento dello zelante sacerdote don Giovanni Marchetti direttore delle medesime. Prima di questo avevo imparato a scrivere e a leggere in casa, sotto il maestro Runck mancino, il quale mi faceva legger la Bibbia».

Dopo le elementari, il ginnasio, o scuola di latinità. Ne scrive cosi nel Diario, per l’anno 1809: «In quest’anno entrai nella prima scuola latina del ginnasio patrio. Cominciai a stabilire meco stesso la massima di non perdere il tempo, ma di impiegarlo tutto in cose utili. In quest’anno o nel precedente stabilii di non voler essere incostante nelle letture». E stabilisce anche di prendere sempre appunti – o «fare degli estratti» – dalle letture che faceva.

Interessante pure l’annotazione per l’anno 1810, l’anno della «bocciatura», non perché non studiava, ma perché si dava troppo ad altre letture. Ecco le sue parole: «1810. Passai alla seconda scuola di latinità. Dato alle letture e nemicissimo della grammatica, quest’anno rimasi senza premio, dopo averlo riportato negli anni precedenti, che avea frequentato scuole pubbliche; il che mi procurò notabile dispiacere. Ed essendo stato poco il mio profitto nella grammatica latina, rimasi un altro anno nella seconda, dov’ebbi il primo premio. Nell’anno seguente studiai la così detta quarta Classe». E così recupera saltando una classe.

La giovinezza e la vocazione sacerdotale

Vive una giovinezza perfettamente sana nel corpo e nello spirito, manifestando subito una grande religiosità che lo caratterizza fin da quegli anni, una forte tendenza alla serietà morale e una singolare apertura agli interessi culturali. Andando avanti negli anni, questi si ranno sempre più estesi e profondi, con particolare inclinazione alla filosofia. Dirà di questo, nel suo discorso “Degli studi dell’autore”: «Nell’adolescenza la nostra mente entrò con ardire non insolito ai giovani nelle questioni filosofiche … Con una sicurezza quasi baldanzosa noi ci ravvolgevamo giorno e notte, quasi per i sentieri d’un giardino, nel vasto campo delle filosofiche questioni, non ci arretravamo dinanzi ad alcuna difficoltà».

E proprio questo suo tendere e darsi cosi agli interessi culturali, poteva essere una «tentazione» per il giovane Rosmini. La sua adolescenza non sembra sia mai stata turbata da altre tendenze o passioni: ma poteva esserci questa, col pericolo della «Superbia non della carne, ma dello spirito.

Dio ne lo preserva, dobbiamo proprio dire. Ce lo fa pensare una sua annotazione del 1813, veramente straordinaria per un giovane di 16 anni. «1813. Quest’anno fu per me anno di grazia: Iddio mi aperse gli occhi su molte cose e conobbi che non vi era altra sapienza che in Dio».

Singolare illuminazione interiore, oppure intima esperienza di Dio, o l’una e l’altra insieme. In altre parole: il giovane Rosmini sente in modo incontrastabile che Dio deve venire prima di tutto.

Lo sente e lo «vuole»: così sarà per tutta la sua vita. Di lì a non molto egli decide di farsi sacerdote; decisione dapprima contrastata dai genitori, che in lui vedevano il continuatore del loro illustre casato. Ma egli è irremovibile. Per gli studi teologici, nel 1816 si reca all’università di Padova, ambiente molto più aperto di quello che avrebbe trovato nel seminario diocesano di Trento. Difatti, a Padova può seguire anche altri corsi, come lo porta la forma enciclopedica o di tendenza universale del suo ingegno.

Viene ordinato sacerdote il 21 aprile 1821. Segue un periodo di raccoglimento a Rovereto, che dura sino al 1826. Portato all’attività, all’intraprendenza, all’organizzazione, a vasti e generosi progetti per il bene del prossimo, egli avverte il pericolo di disperdersi nell’attività e di seguire il proprio impulso nella scelta delle opere da compiere. Vuole invece trovare alla luce di Dio il principio ascetico che regoli come norma costante tutta la sua condotta, che inquadri nel giusto ordine tutte le sue energie, le sue forze, le sue capacità.

È il momento decisivo della sua vita: quello che seguirà, sarà conseguenza di quanto egli viene decidendo nel ritiro di quegli anni a Rovereto. Egli vuole mettere Dio innanzi a tutto, vuole essere tutto di Dio. Ed ecco allora il principio ascetico su cui imposterà tutta la sua condotta: da parte sua vorrà soltanto attendere alla purificazione dell’anima dal male e all’acquisto dell’amore o carità di Dio e del prossimo, in cui consiste la perfezione.

Quanto al resto – studio, attività, lavoro, condizione di vita – non sceglierà da sé, non sceglierà questa o quella condizione di vita, questa o quella attività, e neppure un’opera di carità piuttosto che un’altra: lascerà a Dio di indicargliela attraverso le circostanze esteriori «esaminate al lume della ragione e della fede). È il principio così detto di «passività» o di «indifferenza», che comporta una costante disposizione interiore a volere unicamente e totalmente ciò che vuole Dio.

Quando si pensa che a formulare e a vivere un tale principio è un ingegno vigorosissimo, uno spirito straordinariamente ricco di doti, portato all’azione, di tendenze universali, non si può non sentire che la «passività» di Antonio Rosmini è austera disciplina che egli si impone, è consacrazione totale – e diremmo «immolazione» – al bene, a tutto il bene, nel modo che Dio avrebbe voluto per lui, senza riserve, senza condizioni.

Quanto abbiamo detto, riguarda l’impostazione generale della sua vita, per la quale egli attende l’indicazione della volontà di Dio. Come sacerdote, infatti, ha innanzi a sé tante possibilità: il servizio delle anime in una parrocchia, l’educazione della gioventù, l’assistenza del prossimo bisognoso, lo studio come apostolato intellettuale, la vita stessa monastica in un convento. Tutte vie che gli sono aperte, e tutte di bene. Ma egli non vuole scegliere da sé: attende che sia Dio ad indicargli la sua volontà.

Intanto, però, in quegli anni di ritiro, mentre l’occupazione di fondo è lo studio e la preghiera, egli presta con prontezza e zelo la sua opera sacerdotale ogni volta che ne è richiesto. Va ricordata, di questi anni, una sua iniziativa singolare: l’istituzione di una specie di scuola familiare che egli tiene in casa per leggere e commentare la Somma di san Tommaso ai sacerdoti e ai chierici della città.

Possiamo vedere anche in questa iniziativa il desiderio o addirittura il bisogno che egli sente profondo di unirsi con altri per operare il bene in misura più grande e più efficace. È questa una caratteristica che lo accompagnerà sempre, anche perché aveva profondissimo il senso dell’«amicizia», che egli saprà sempre coltivare e portare a frutto. Possiamo ricordare, ad esempio, che negli anni dell’università aveva cercato di fondare la «Società degli amici» per riunire i giovani suoi coetanei più pronti e capaci di bene. Ma il tentativo non ebbe seguito, anche perché le «associazioni» non erano ben viste dall’Austria nei suoi territori. L’ideale di Società, per Rosmini, troverà realizzazione più tardi, nella fondazione di un istituto religioso, di cui diremo tra poco.

Vogliamo prima soffermarci su di un altro momento del suo ritiro a Rovereto. Nel 1823 muore il papa Pio VII, che Rosmini aveva conosciuto a Roma in quello stesso anno, in occasione di un viaggio nella capitale laziale insieme al patriarca di Venezia Ladislaus Pyrker. Aveva avuto la fortuna di un colloquio privato con quel grande Pontefice, che tutto il mondo cattolico ammirava e venerava per la lotta sostenuta, a difesa della religione e della libertà della Chiesa, contro Napoleone

Alla sua morte, anche a Rovereto si celebrano solenni funerali, e Rosmini viene incaricato di dirne l’elogio. Il suo discorso, altamente ispirato, termina con questa «invocazione» per l’Italia: «In quanto a me, per quell’incredibile affetto che a te porto, o Italia, o gran genitrice, innalzerò incessantemente questi devoti preghi all’Eterno: – Onnipotente che prediligi l’Italia, che concedi a lei immortali figliuoli, che dall’Eterna Roma per i tuoi Vicari governi gli spiriti, deh! dona altresì ad essa, benignissimo, il conoscimento dei tuoi alti destini, unica cosa che ignora: maestra di virtù alla terra, specchio di religione, rendila avida di liberi voti e d’amore, di cui sia degna, più che di tributi e di spavento: e fa’ che in se stessa ella trovi felici là e riposo, e in tutto il mondo un nome non feroce, ma pio». Ci voleva anche meno perché Rosmini fosse segnato nel libro nero della polizia austriaca.

L’Istituto della Carità e la filosofia cristiana

Ci siamo soffermati un po’ a lungo sul ritiro di Rovereto, perché tutto quello che Rosmini intraprenderà poi, si spiega alla luce del principio di «passività» che egli stabilisce proprio in quegli anni, nel raccoglimento e nella preghiera davanti a Dio. Anche nello stabilire e seguire quel «principio» egli mette Dio prima di tutto, la sua volontà, il suo «beneplacito», come egli ama dire. 

La sua vita si svolgerà in seguito in due direzioni: nel governo dell’istituto religioso che fonderà dì lì a qualche anno, e nell’opera di pensatore e di scrittore per la restaurazione della filosofia: nel campo, cioè, del sapere, che per lui sarà esercizio di «carità intellettuale» . Ma all’una e all’altra di queste due direzioni della vita, non giungerà di propria scelta; vi sarà condotto dalla volontà di Dio.

Un primo invito a dar forma ad un istituto religioso, gli viene nel 1821 da Maddalena di Canossa, fondatrice delle Figlie della Carità. Essa – per la stima e venerazione che ha di lui – lo esorta a dare vita alla Congregazione religiosa dei Figli della Carità, da affiancare a quella da lei fondata. Rosmini accoglie l’invito ma soltanto per «meditarvi» su, non bastandogli, per passare all’esecuzione, quella richiesta, sia pure di una donna santa come la Canossa.

Mantiene con lei corrispondenza epistolare per qualche anno, sempre su questo argomento; ma sente che il Signore non lo chiama ancora a quell’opera.

Soltanto nell’estate del 1827, a Milano, ove si era trasferito nel 1826 per avere un ambiente più vasto per i suoi studi, si danno circostanze che l’inducono a convincersi che era giunto il momento di dare inizio a quell’opera, il cui progetto egli aveva per anni coltivato nella mente e nel cuore.

L’inizio dell’istituto religioso si ha sul Monte Calvario di Domodossola, nel febbraio 1828: anche questo luogo non era scelto da Rosmini, ma indicatogli da amici (l’abate Luigi Polidori, cappellano del conte Giacomo Mellerio). L’inizio è veramente singolare: al Calvario, Rosmini è solo: prepara le Costituzioni del nascente istituto e attende che la Provvidenza gli mandi poi i compagni. Che verranno man mano, nel tempo.

Rosmini denomina la nuova società religiosa Istituto della Carità. E mette ad essa il medesimo fondamento che egli aveva posto alla base della propria condotta: e cioè, l’Istituto deve professare la carità «universale», ossia la carità spirituale, la carità intellettuale e la carità corporale, per il bene del prossimo. Ma non deve essere l’Istituto – cioè i responsabili del medesimo – a scegliere le opere di carità da esercitare: esso deve intraprendere le opere che gli vengono richieste, purché abbia religiosi idonei e disponibili.

Se poi non è richiesto di alcun’opera di carità, l’Istituto consegue lo stesso il suo fine che è quello della salvezza e perfezione delle anime dei suoi membri. Per l’esercizio, così, della carità «Universale», si richiede che i religiosi dell’Istituto siano «disponibili» a qualunque opera venga loro affidata. Naturalmente sarà compito dei superiori di mettere il religioso giusto nell’opera giusta. Rosmini stenderà i regolamenti per tre Collegi deputati alla formazione dei religiosi in questi diversi rami della carità: il Collegio dei missionari, per la carità spirituale; il Collegio degli educatori elementari, per la carità intellettuale, e il Collegio medico, per la formazione dei medici e la cura degli ammalati (le circostanze permetteranno che avesse vita sollanto il Collegio degli educatori elementari).

Bisogna rilevare che l’apertura alla «carità universale», caratteristica dell’Istituto, risponde a tutto lo spirito di Rosmini, sia nel campo ascetico, sia in quello del pensiero. Anche il «pensare» di Rosmini è universale, abbraccia cioè «tutto l’essere», l’essere in tutte le sue forme, e cioè la forma ideale, la forma reale e la forma morale.

L’essere è «bene», e lo è in tutte le sue forme. La vera carità, quindi, deve volere e procurare al prossimo tutto il bene, e cioè il bene nella sua forma ideale, ed è l’istruzione, la formazione della mente; il bene nella sua forma reale, ed è tutto ciò che giova al corpo; il bene nella sua forma morale, ed è tutto ciò che serve alla vita spirituale dell’anima. In tutte queste dimensioni va la carità professata dall’Istituto rosminiano.

Alla fine del 1828, Rosmini va a Roma per sottoporre al Santo Padre il progetto dell’Istituto e per avere da lui conferma della volontà di Dio. E Pio VIII, nel maggio 1829, approva il progetto e incoraggia Rosmini a darvi esecuzione: poi gli dice: «È volontà di Dio che Ella si occupi nello scrivere libri: tale è la sua vocazione. La Chiesa al presente ha gran bisogno di scrittori; dico di scrittori solidi, di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugli uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione. Si tenga certo, che Ella potrà recare un vantaggio assai maggiore al prossimo occupandosi nello scrivere, che non esercitando qualunque altra opera del sacro ministero».

Il Santo Padre conosceva qualche scritto di Rosmini: erano già stati pubblicati, infatti, alcuni suoi saggi, come il libro Dell’educazione cristiana (in cui il Manzoni disse di sentire lo «spirito dei Padri della Chiesa»), un saggio sulla Divina Provvidenza e un altro Sull’unità dell’educazione, e i due volumi degli Opuscoli filosofici. Scritti minori, si deve dire, ma in cui già si sentiva il pensatore geniale e di grande ricchezza intellettuale.

E così, dopo le autorevoli parole del Papa, l’opera di pensatore e di scrittore diviene per Rosmini un modo di corrispondere con sicurezza alla volontà di Dio. Egli ne rimane profondamente convinto: e lo scrive esultante agli amici: «In tal maniera quel sommo Pontefice di santa memoria mi tracciava la via, e m’esortava a calcarla: e non posso dimenticarmi con quali parole e con quanto calore e bontà seguitasse a dimostrarmi la verità del suo consiglio, e specialmente a persuadermi, che gli uomini dovevano condursi col ragionamento. Così fu determinata la direzione dei miei studi successivi, e la riforma della filosofia divenne l’intento universale dei lavori fin qui da me pubblicati o promessi; a cui consegue di sua natura quella restaurazione di tulle le altre scienze, delle quali la filosofia è madre e nutrice, principalmente delle morali, dove ogni decoro ed ogni onore dell’umanità consiste» (Discorso sugli studi dell’autore).

A Roma, per significare che tutto sottometteva all’autorità della Santa Sede e tutto dedicava al bene della Chiesa, pubblica nel 1830 la sua prima grande opera filosofica, il Nuovo saggio sull’origine delle idee e il libretto – grande però di contenuto – delle Massime di perfezione cristiana in cui vi è in compendio tutta la sua dottrina ascetica.

L’Istituto della Carità si arricchisce man mano di religiosi che Rosmini segue personalmente, di presenza e con la corrispondenza epistolare, per aiutarli, sostenerli e formarli al vero spirito del medesimo. Egli è rigorosissimo in quest’opera di formazione, pure con la finezza, la discrezione e il discernimento spirituale, che lo porta a comprendere e ad immedesimarsi in ciascuno dei suoi religiosi.

Nel 1832, dà pure inizio alla Congregazione delle Suore della Provvidenza, impostata sulle stesse basi ascetiche proprie dell’Istituto della Carità. E giungono le prime richieste per opere di carità, prevalentemente per scuole. Inizia così l’opera dei «maestri» e delle «maestre» rosminiane, che perdura tuttora.

Una parentesi, purtroppo non lieta, si ha, in quei primi anni dell’Istituto, con l’apertura di una casa in Trento e con la cura della parrocchia di San Marco in Roverero, a cui viene chiamato Rosmini stesso nel 1834. Entrambe le opere si interromperanno nel 1835, impedite da circostanze ostili. L’Austria non agevolò mai le iniziative di Rosmini, non fidandosi di lui, suo suddito ma con sentimenti troppo grandi e ardenti per l’Italia. E fu una delle croci che la Provvidenza gli permise.

In compenso, si apre proprio allora una nuova porta all’Istituto, con la richiesta di suoi religiosi per missioni in Inghilterra. «I cattolici inglesi – scrive allora Rosmini – mi stanno tanto a cuore che non so che cosa farei, se fossi capace di giovar loro in qualche minima cosa; e penso da parte mia di non trascurare minimamente ciò che la divina Provvidenza mi presentasse da far in loro vantaggio, e vorrei dar loro anche il mio sangue per la gloria di nostro Signore, sebbene il mio sangue non val nulla».

I religiosi rosminiani scrissero una bella pagina nella storia del cattolicesimo inglese, cooperando alla restaurazione della gerarchia dall’Inghilterra, ancora vivente Rosmini, passarono poi anche in Irlanda. Nel mondo anglosassone lo spirito dell’Istituto – di sua natura «universale» – permise ai religiosi di adattarsi sapientemente. Più tardi, nei primi decenni di questo secolo, dall’Irlanda i religiosi rosminiani passarono anche negli Stati Uniti d’America, e dall’Inghilterra alla Nuova Zelanda. Oggi sono anche in Venezuela, Tanzania ed India. Così pure le Suore rosminiane.

L’Epistolario di Rosmini ci dà la misura della sua grandezza d’animo, della sua apertura a tutto il bene, della sua sapienza e prudenza e zelo e discrezione nell’intraprendere le varie opere che venivano richieste, nel seguirle dopo averle assunte, nel mettere in primo piano il bene delle persone e non quello dell’opera, nell’indirizzare tutto alla vera gloria di Dio. Le migliaia di lettere che egli scrive, sono il tracciato più efficace della sua vita.

Nel 1838, l’Istituto della Carità viene approvato dal papa Gregorio XVI. Nelle Lettere apostoliche di approvazione, il Papa designa di sua autorità Rosmini come superiore generale dell’Istituto, derogando per quella volta dalle norme delle Costituzioni per l’elezione del superiore generale. E lo fa, perché gli consta «che il diletto figlio Sacerdote Antonio Rosmini è persona fornita di elevato ed eminente ingegno, adorna di egregie qualità d’animo, per la scienza delle cose divine ed umane sommamente illustre, chiaro per la sua esimia pietà, religione, virtù, probità, prudenza e integrità, e splendente di meraviglioso amore e attaccamento alla cattolica religione e all’Apostolica Sede». Queste parole, per suggerimento del Manzoni, saranno incise sulla tomba di Rosmini a Stresa.

Mentre si occupa della vita dell’Istituto e delle opere che esso viene man mano assumendo e si cura amorosamente del bene dei religiosi, attende anche all’altra grande opera che dal Papa gli era stata indicata come sua particolare «vocazione»: lo «scrivere libri. Fu questa, come si sa, la sua gloria e la sua croce.

Le incomprensioni

Nello svolgersi della vita dell’Istituto, Rosmini ebbe sì momenti di prova per certe difficoltà che si diedero già fin da quando a Roma se ne discuteva l’approvazione (particolarmente sui punti della povertà religiosa e dell’autorità del superiore generale); ebbe pure a soffrire più tardi per le tristi vicende della parrocchia di San Zeno a Verona, assunta con grande impegno dall’Istituto, per poi vedere allontanati «manu militari» i suoi religiosi, che l’Austria non voleva nei propri territori. Ma queste, anche se dolorose, furono piccole prove.

Dove invece la Provvidenza dispose per lui l’evangelica «macerazione» del grano di frumento che deve morire per portare frutto, fu proprio nell’opera per lui più preziosa, più grande, più caratteristica: l’apostolato della «carità intellettuale». Era tale, infatti, per lui, la sua opera di pensatore e di scrittore.

Opera delicatissima, perché tanto difficile da compiere e al tempo stesso tanto necessaria: se le menti non giungono alla verità, tutto nell’uomo rimane al buio. È qui che si inscrive l’opera di Rosmini come pensatore e scrittore. Nel suo scritto, già citato, Degli studi dell’autore – un grande saggio della sua piena maturità – egli dichiara quali furono i fini speciali a cui ordinò la dottrina espressa nelle sue varie opere, e cioè: combattere gli errori, ridurre la Verità a sistema, dare una filosofia che possa essere solida base alle scienze, e di cui possa valersi la teologia.

Non tentiamo neppure un compendio del suo pensiero, che corre per tanti volumi, e si svolge man mano, veramente universale, e metafisico, e cioè che si rifà sempre ai principi e tutto vi riconduce assommando insieme l’unità e la totalità.

Quanto fosse richiesto un tale pensiero dalle condizioni dei tempi, ci si convince pensando non solo al disorientamento mentale che seguiva alla Rivoluzione francese, ma soprattutto allo spezzarsi del pensiero grande in tanti tronconi che andavano ciascuno per conto proprio, come l’empirismo, il sensismo, il razionalismo, l’idealismo, pretendendo ciascuno di affermarsi come valore assoluto. E insieme, persino lo scetticismo che non crede di poter giungere alla verità.

Abbiamo accennato ai «fini» a cui fu ordinata la dottrina da Rosmini esposta nelle varie opere: aggiungiamo che i «mezzi» per raggiungere quei fini, furono per lui – come egli dichiara – la «libertà del filosofare» e la «conciliazione delle sentenze». Noi faremmo equivalere queste due espressioni a quest’altra: Rosmini raggiunge quei fini col «pensare in grande». Pregio indiscutibile di tutto il suo filosofare, ma insieme difficoltà vera per chi voglia penetrare il suo pensiero: quando si crede di averlo colto nella sua interezza, ci si trova ad averne soltanto un passaggio. Come avverrà da parte dei suoi avversari.

Dopo il Nuovo saggio, che contiene il fondamento di tutto il suo pensiero, e cioè l’affermazione che l’intelligenza è illuminata dalla luce dell’essere – o essere ideale – che è la luce della verità, per cui vi è nell’uomo qualcosa di «divino», Rosmini pubblica altre opere in cui applica questo principio al campo della morale, dell’antropologia, della politica, della pedagogia, iniziando cosi a costruire quel «sistema della Verità» a cui voleva ordinare tutto il suo pensiero filosofico. E pubblica anche, nel 1839, il Trattato della coscienza morale.

È quest’ultima opera a dare occasione alla prima polemica sulle sue dottrine. Diciamo soltanto, che non è una discussione «scientifica»: i suoi avversari non discutono, accusano senz’altro e rigettano alcune sue dottrine come contrarie alla fede e alla morale.

Naturalmente vi è subito chi ribatte e scrive in difesa di Rosmini: egli stesso risponde con un lungo saggio, dal titolo Risposta al Finto Eusebio Cristiano (perché l’anonimo avversario si era presentato nel titolo del suo scritto come «Eusebio Cristiano»). Da notarsi: è l’unica volta che Rosmini risponde agli attacchi anonimi, perché ritiene di non essere stato forse chiaro nell’esporre le proprie dottrine.

Ma si accorgerà subito che non era questione «scientifica», e non risponderà più. Lo faranno per lui i suoi amici e discepoli.

È ben curioso questo fatto: qualche anno prima, il Papa chiama Rosmini «sommamente illustre per la scienza delle cose divine e umane», e cioè per le sue dottrine teologiche e filosofiche. Ed ora vengono accusate proprio queste dottrine!

Per mettere fine alla polemica, interviene nel 1843 lo stesso Gregorio XVI con un decreto di «silenzio» imposto al superiore generale della Compagnia di Gesù e a Rosmini stesso. Ma la polemica viene «sopita», non risolta. Il Signore prova i giusti, e li prova in ciò che essi hanno di più caratteristico e prezioso e proprio. Così certo il Signore ha permesso di Rosmini: che fosse provato nel suo luminoso e delicato apostolato della «carità intellettuale».

La missione a Roma e la condanna

In tale campo si deve però dire che le sue dottrine trovano subito anche grandi e vasti consensi: le opposizioni saranno accanite, ma parziali. Non si formerà una «scuola» rosminiana, perché Rosmini stesso aborriva una tale ristrettezza, incompatibile del resto col suo spirito universale e col suo «pensare in grande». Ma avrà sempre, tra i membri del clero diocesano e regolare, seguaci fedelissimi e difensori tenacissimi. Ed anche in campo laico avrà studiosi e ammiratori; può bastare un nome: Alessandro Manzoni, che di Rosmini disse essere egli «una delle cinque o sei più grandi intelligenze che l’umanità aveva prodotto a distanza di secoli».

Per Rosmini, al fascino del pensatore che tende a conciliare il pensiero tradizionale con le conquiste del pensiero moderno, si aggiungeva quello dell’uomo di alta coscienza morale, di elevatezza di vita. di sacerdote integerrimo. di maestro di vita spirituale. A lui, infatti, si rivolgono come a guida sicura, tante e tante persone, religiosi e laici, personaggi e geme semplice, come attesta il suo Epistolario ascetico.

Proprio per il prestigio che gode così vastamente, il Governo piemontese di Carlo Alberto, in un momento molto difficile nella prima guerra d’indipendenza, volendo inviare un plenipotenziario per trattare a Roma presso il Papa, pensa a Rosmini. È il Gioberti ad indicarlo come la persona più autorevole. 

Le vicende di questo incarico diplomatico sono rigorosamente documentate da Rosmini nel suo lungo scritto Della Missione a Roma, pubblicato postumo. La prima intenzione del Governo piemontese per quella missione a Roma, era di ottenere la partecipazione del Papa alla guerra contro l’Austria. Rosmini si oppone con fermezza a questa proposta, facendo osservare – in pieno Consiglio dei ministri – che non si poteva pretendere di conciliarsi l’animo del Papa e affezionarlo alla causa italiana, quando egli dal Governo piemontese, per il suo indirizzo demagogico e anticlericale, non aveva che amarezze e giustissimi timori per l’avvenire della religione.

All’inaspettato e franco discorso di Rosmini, i ministri si risentirono offesi. Ma poi si accordarono in questo, che si promovesse un leale concordato fra Roma e Torino, fondato sulla piena libertà della Chiesa, e una confederazione tra i diversi Stati d’Italia, sotto la presidenza del Sommo Pontefice. Su questo progetto, Rosmini accettò la missione a Roma.

Il Papa – nell’agosto 1848 – lo accoglie con grande affetto e testimonianze di stima, e gli annuncia anche il cardinalato: sarebbe stato nel concistoro del dicembre successivo. Cessa poi l’incarico diplomatico per Rosmini, nel novembre scoppia la rivoluzione a Roma e Pio IX fugge a Gaeta nel regno di Napoli, e vuole che Rosmini lo segua.

Ma a Gaeta gli si crea subito un ambiente molto ostile: anche l’Austria non è estranea a questa ostilità. Si tornano a gettare ombre sulle sue dottrine, tanto più che qualche tempo prima era stato pubblicato il suo libro Delle cinque piaghe della santa Chiesa. Un libro che è frutto di un ardente amore per la Chiesa, e insieme di un grande pensare sacerdotale. Rosmini vedeva minacciata l’unità e la libertà della Chiesa da gravi e dolorose situazioni del tempo: ha il coraggio di denunciare quelle situazioni o «piaghe» della «santa» Chiesa (1. la divisione del popolo dal clero nel culto liturgico; 2. la insufficiente educazione del clero; 3. la disunione dei vescovi; 4. La nomina dei vescovi abbandonata al potere laicale; 5. la servitù dei beni ecclesiastici) e di indicarne i rimedi. Ma il libro, allora, viene letto in ben altra luce.

Nel regno di Napoli, Rosmini incontra difficoltà anche da parte della polizia borbonica, che non lo vuole in quelle terre; presso il Papa gli si creano ostacoli per impedirgli con ogni pretesto le udienze. E intanto le ombre sulle sue dottrine si addensano sempre più. Pio IX si dimostra gravemente preoccupato: nell’aprile 1849 scrive a Rosmini: «Con paterno affetto La esortiamo a riflettere sopra le opere da Lei stampate, per modificarle, o correggerle, o ritrattarle».

Momento di profondo dolore per Rosmini: le parole del Papa lo lasciano «nelle più fitte tenebre», egli scrive. Non tanto perché viene messa in discussione tutta la sua opera di pensatore e di scrittore, quell’opera che Pio VIII aveva detto essere la sua «vocazione» nella Chiesa; ma perché Pio IX non si riferisce a qualche punto particolare di dottrina da modificare o correggere o ritrattare; ma si esprime così in generale, dicendo di riflettere sopra le opere da lui stampate. Ma quali? Ne aveva pubblicate molte. E su quali punti di dottrina in particolare?

Il suo stato d’animo è ben espresso nella lettera che egli indirizza subito al Papa, e che vogliamo riportare, anche se la citazione può risultare lunga: ma ci documenta perfettamente il suo abituale e costante atteggiamento di fronte all’autorità della Chiesa in fatto di dottrina. Scrive dunque al Santo Padre: «Beatissimo Padre, figlio devoto ed ubbidiente alla Chiesa, che è la colonna e il firmamento della verità, sommesso a tutte le sue decisioni, contro le quali non sorse mai un dubbio nell’animo mio, aderente coll’intime viscere alla dottrina celeste da essa insegnata, dove solo è la pace. il gaudio e la gloria della mente umana e la speranza dell’eterna felicità, io ho sottoposte le molte e molte volte con pubbliche e private dichiarazioni tulle le opere mie e tutte le mie opinioni a quella infallibile maestra e madre, nel grembo della quale per grazia di Dio sono nato, e rinato alla grazia. Il tenore dell’ossequiatissimo foglio di cui Vostra Beatitudine mi onorò, mi fa provare il bisogno di protestare di nuovo avanti di Lei il pienissimo mio attaccamento alle dottrine della Santa Romana Chiesa di cui sono figlio. Beatissimo Padre, io bramo modificare tutto ciò che ci fosse da modificare nelle mie opere, di correggere tutto ciò che ci fosse da correggere, di ritrattare tutto ciò che ci fosse da ritrattare ( … ). Io voglio appoggiarmi in tutto sull’autorità della Chiesa, e voglio che tutto il mondo sappia che a questa sola autorità io aderisco, che mi compiaccio delle verità da essa insegnatemi, che mi glorio di ritrattare gli errori in cui potessi essere incorso contro alle infallibili sue decisioni».

La lettera, consegnata da Rosmini alla Nunziatura di Napoli, non si sa se sia stata inoltrata al Santo Padre, perché rimase senza risposta. Nel giugno del 1849 vengono messe all’Indice due sue opere, proprio il libro Delle cinque piaghe della Santa Chiesa e un altro scritto di argomento politico: La costituzione secondo la giustizia sociale.

L’accenno a questo secondo scritto, ci permette di ricordare che Rosmini prende parte intensamente al Risorgimento italiano, sostenendo innanzitutto la necessità dell’indipendenza dell’Italia dall’Austria e auspicando l’unità d’Italia attraverso una iniziale forma di federazione tra gli Stati principali, ma come passaggio poi ad una successiva unità politica totale. Vi sono parecchi suoi scritti su questo argomento, ed anche alcuni Progetti di Costituzione per lo Stato Pontificio, che egli stende nel 1848, coll’intenzione di giovare alla Santa Sede in quel delicato momento.

Tornando alla condanna del 1849: con quale animo Rosmini l’accetti, lo dimostrano le sue lettere di quel tempo. Una sola breve citazione, da una lettera all’amico don Paolo Barola: «L’improvviso avvenimento testé accadutomi, per nulla alterò la mia pacee la contentezza dell’animo mio; anzi espresse dal medesimo sentimenti sinceri di ringraziamento e di lode a quella Provvidenza divina, che, disponendo ogni cosa coll’amore, anche questo per solo amore permise».

L’abbandono totale nella divina Provvidenza non è soltanto un atteggiamento ascetico costante per lui, in tutto e sempre; ma è anche insegnamento che egli non si stanca mai di dare. Ad esempio, la quarta delle Massime di perfezione è appunto lo «abbandonare totalmente se stesso nella divina Provvidenza»; nelle lettere di direzione spirituale vi insiste sempre, indicandola come regola fondamentale di vita; e del governo della Provvidenza nel mondo tratta altamente e profondamente nel grande saggio della Teodicea, opera completata nella maturità.

E a dimostrare come davvero egli «vivesse» l’abbandono nella divina Provvidenza, così da riportarne vera serenità di animo anche nelle situazioni più difficili, sta anche il fatto che proprio nei mesi del soggiorno cosi provato a seguito del Papa, egli riesce a staccarsi dai tristi avvenimenti esteriori per meditare profondamente sul Vangelo di Giovanni. Aveva iniziato tali meditazioni anni prima; ora le riprende anche per iscritto, proprio mentre attorno a lui le difficoltà si fanno più aspre e le prove più dolorose.

Le pagine della sua Introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata, rimaste incompiute e pubblicate postume, si direbbero scritte in momenti particolarmente propizi per l’anima, di serenità e di quiete anche esteriore. Invece, nascono in tempi di macerazione interiore. E sono le pagine più profonde e ardenti che egli scrive sul Verbo luce dell’anima, sull’incorporazione dell’uomo a Cristo, nella realtà mistica del battesimo e nella misteriosa partecipazione alla sua vita eucaristica, i cui effetti perdurano oltre la vita terrena. Pagine di alta teologia spirituale, e non dubbia testimonianza di intima esperienza mistica.

Gli ultimi anni a Stresa

Con l’addensarsi delle ombre sulle sue dottrine e con la messa all’Indice di quelle sue due opere, Rosmini non può più essere al fianco del Papa. Pio IX, infatti, lo lascia libero di tornare tra i suoi confratelli a Stresa, da dove era partito nel 1848 per la missione diplomatica a Roma. Apparentemente, agli occhi del mondo, può sembrare un fallimento il suo soggiorno a Roma e a Gaeta; ma nel progetto di Dio era occasione per lui di virtù e di merito più grande.

Una volta di più egli considera «le cose dall’alto»: sono parole sue. E ad un amico sacerdote, don Michele Parma, che gli scrive per significargli tutta la propria vicinanza e partecipazione, risponde: «Vi ringrazio che vogliate partecipare alle strane e per poco incredibili vicende per le quali mi conduce la Provvidenza, a cui non fallisce giammai l’immutabile consiglio. lo, meditandola l’ammiro; ammirandola, l’amo; amandola, la celebro; celebrandola la ringrazio; ringraziandola, m’empio di letizia. E come farei altramente se so per ragione e per fede, e lo sento coll’intimo spirito che tutto ciò che si fa, o voluto o permesso da Dio, è fatto da un eterno, da un infinito, da un essenziale Amore? E chi potrebbe corrucciarsi all’amore?».

Rientrato nel 1849 a Stresa, dove aveva fatto costruire la casa per il noviziato dell’Istituto, continua la cura paterna e sapiente delle sue due famiglie religiose che negli anni erano cresciute di membri e di opere; vive in un ritiro ancora più intimo con Dio, e continua pure i suoi studi di filosofia. Scrive, infatti, in quegli anni, l’opera sua più alta, la Teosofia, in cui il suo pensiero tocca il vertice di tutto il sapere e lo svolge in tutte le sue forme, nella dottrina dell’essere uno e trino. Anche quest’opera, però, rimarrà incompiuta.

In questi ultimi anni, nella solitudine di Stresa, vengono a lui tante e tante persone che vogliono attingere alla sua sapienza di vita e affidarsi alla sua guida spirituale; e sono ecclesiastici, religiosi e laici. Tra questi, Alessandro Manzoni, che proprio allora, quasi a confortare l’amico per le incomprensioni e le amarezze avute dal «mondo», scrive il Dialogo dell’Invenzione, in cui esalta la filosofia di Rosmini come quella che pone la base più sicura a tutto il sapere.

Intanto, però, da parte degli avversari si riprendono gli attacchi. Esce un volume anonimo, Lettere di un Prete bolognese che lancia ogni genere di accuse contro le sue dottrine specialmente teologiche e morali. È lo scatenarsi di un’altra gravissima polemica. Pio IX ordina che tutte le opere di Rosmini vengano esaminate. L’esame dura quattro anni.

Altra «prova» per lui. Ed altra occasione per ringraziare da parte sua il Signore. Scrive nel marzo 1852, mentre perdura l’esame aRoma: «Il pensiero che tutto ciò che accade è volontà di Dio è così dolce che basta da sé solo a renderci pienamente tranquilli e contenti (…). Io non posso finire di ringraziare il Signore, che mi fa intendere questa consolantissima verità; e mi sento così felice della mia umiliazione, che non vorrei uscirne, se non fosse per uniformarmi di nuovo al divino volere».

E la prova è tanto più dolorosa, in quanto sente giustamente che da quella situazione viene grave danno al suo Istituto. Ma il Signore gli chiede proprio questo, di soffrire cioè anche come «padre» di una famiglia religiosa. Ed egli accetta. Scrive, infatti, più avanti: «D’una sola cosa ho qualche pena, ed è il vedere qual grave danno soffra l’Istituto della Carità dall’avere un capo che così fu trattato, e che tuttora è tenuto sollo un processo di cui parla tutto il mondo, che lo copre d’una nube di sospetti, e che, a quanto mi si scrive, non si pensa punto di risolvere con celerità, anzi di tener sospeso e protrarre indefinitamente. Ma Iddio conosce i tempi e i momenti e perciò non finirò mai dì benedirlo anche di questo».

L’esame, condotto presso la Congregazione dell’Indice, finisce nel 1854. Alla seduta finale, in cui si doveva profferire la sentenza definitiva, presiede lo stesso Pio IX. E la sentenza è di piena «assoluzione» dalle accuse che si erano mosse alle dottrine di Rosmini, col divieto di rinnovare in seguito nuove accuse. E Pio IX, a seduta finita, esce in queste parole: «Sia lodato Iddio, che manda di quando in quando di questi uomini per il bene della sua Chiesa».

Rosmini ne ringrazia il Signore; ma il suo spirito pare vivere ormai nell’assoluto, al dì sopra delle vicende umane. Gli resta ancora un anno di vita, in cui continua la sua opera per il governo dell’Istituto, e prosegue pure i suoi studi di filosofia. Ma sopraggiunge il rincrudirsi della gentilizia malattia di fegato, di cui aveva sofferto tutta la vita, e sono mesi di infermità che consumeranno il suo fisico tra dolori senza lenimenti e l’elevarsi dello spirito che si affina nella sofferenza.

Al suo capezzale, a Stresa, vengono amici, devoti, ammiratori, discepoli, persone tutte che gli vogliono testimoniare gratitudine, affetto, stima, e che pregano e continuano a sperare. E tutti vogliono ancora da lui una parola, un ricordo, una benedizione. Il Manzoni, benché in non buone condizioni di salme, accorre al capezzale del grande amico col cuore colmo di strazio, e non nasconde le lacrime. E ne dà questa testimonianza, in una lettera al genero Giambattista Giorgini: «La rassegnazione, o piuttosto il pieno e naturale consenso alla volontà del Signore, la serenità che ne è la conseguenza, le fa vedere in ogni suo detto, in ogni suo atto, in quel sorriso non mutato, in un aspetto così mutato, come ne scriveva e ne parlava».

Il Manzoni non sa capacitarsi che debba spegnersi sulla terra un’intelligenza come quella di Rosmini. E ad un certo momento glielo dice, in una commozione che lo prende sino alle lacrime: «Speriamo che il Signore La voglia conservare ancora tra noi, e darle tempo di condurre a termine tante belle opere che ha cominciate: la sua presenza tra noi è troppo necessaria».

E Rosmini: «No, no, nessuno è necessario a Dio: le opere che Egli ha cominciate, Egli le finirà con quei mezzi che ha nelle mani, che sono moltissimi, e sono un abisso al quale noi possiamo solo affacciarci per adorare. Quanto a me sono del tutto inutile, temo anzi essere dannoso; e questo timore, non solo mi fa essere rassegnato alla morte, ma me la fa desiderare».

«Ah! per amor del ciclo, riprende il Manzoni, non dica questo: che faremo noi?». «ADORARE, TACERE, GODERE»: è il testamento spirituale di Antonio Rosmini ad Alessandro Manzoni.

Spira alle prime ore del 1° luglio 1855, nel giorno dedicato al Preziosissimo Sangue di Cristo, di cui egli era devotissimo. Le sue spoglie mortali riposano in una cripta della chiesa del Santissimo Crocifisso annessa alla casa del noviziato dell’Istituto, sopra Stresa. E sulla sua tomba, Vincenzo Vela erigerà un monumento, con la statua di Rosmini in ginocchio, vero capolavoro per penetrazione psicologica ed efficacia di espressione.

La questione rosminiana e la riabilitazione

Neanche trent’anni dopo, essendo ormai morto Pio IX, si riprendono gli attacchi contro le sue dottrine, prendendo lo spunto dalla pubblicazione di due opere postume – e quindi non esaminate nel 1851-54- e cioè la Teosofia e L’Introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata.

Da queste opere, ma anche da altre già esaminare ed assolte, si traggono «quaranta proposizioni», che però assommano tutti i punti fondamentali delle sue dottrine filosofiche e teologiche, e vengono denunciate al Santo Uffizio. li quale, col decreto Post obitum del 1888, le condanna e le proscrive.

Nel decreto di condanna, non vi è alcuna qualificazione di queste dottrine: non si dice cioè che siano erronee, o false o ereticali. Si dice soltanto che erano state sottoposte al giudizio della Santa Sede perché «non sembravano consone alla verità cattolica: haud consonae catholicae veritati videbantur.

Da allora, è passato più di un secolo, in cui si sono avuti numerosissimi ed amplissimi studi, ricerche, approfondimenti circa le dottrine di Rosmini, a dimostrare la loro perfetta armonia con la verità cattolica. Quello che un secolo fa poteva non essere «chiaro» nell’enunciato rosminiano ristretto nelle angustie di una proposizione, con gli studi che si sono fatti è stato ampiamente chiarito.

Con la condanna del Santo Uffizio, nel campo della cultura cattolica molti si sono staccati dalle dottrine di Rosmini; altri, invece, vi si strinsero ancora più convintamente, e continuarono a studiarle, ad approfondirle e a difenderle, anche se «ufficialmente» non potevano avere molto spazio. V i fu veramente una tenace convintissima fedeltà al suo pensiero, da parte di studiosi molto seri e profondi, che talvolta dovettero anche soffrire per quella loro fedeltà.

L’Istituto della Carità, nella persona del suo superiore generale, allora padre Luigi Lanzoni, seppe imitare l’esempio del Fondatore nel sottomettersi immediatamente e fedelmente alla decisione della Santa Sede, anche con lo strazio nel cuore. L’Istituto, però, evitò di estendersi in quegli anni di prova, e fu misura di prudenza allora molto saggia.

Poi man mano i tempi cambiarono. Oggi Rosmini è ricercato e accostato da moltissimi studiosi come un grande maestro del pensiero. Se le dottrine di Rosmini furono parzialmente discusse, quella che fu sempre fuori discussione è la sua grandezza morale e spirituale, la santità della sua vira. Alle testimonianze per lui ancora vivente, si aggiungono quelle di tante persone che dopo la sua morte e fino ai nostri giorni, hanno trovato e trovano in lui il maestro di vita spirituale che con l’esempio e gli insegnamenti li porta a Dio.

Papa Giovanni Paolo II, nel discorso tenuto ai Capitolari dell’Istituto l’11 novembre 1988, ha ricordato che «uomini di cultura e di studio, ecclesiastici o laici, desiderano accostarsi ai suoi scritti per ritrovare le ragioni supreme del sapere, alla luce del suo esempio di credente e di filosofo, apprezzando il suo modo di accostarsi a Dio attraverso la scienza e la filosofia, riconoscendo l’opportunità della sua ricerca al fine di confermare il valore delle verità di fede e del messaggio cristiano sull’uomo e sul suo ruolo nel mondo».

Nel 1998, nell’enciclica Fides et ratio (§74), lo stesso Papa citava Rosmini tra i grandi pensatori «esempi significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede », assieme a John Henry Newman, Edith Stein, Jacques Maritain ed altri; egli ribadiva anche come «l’attenzione all’itinerario spirituale di questi maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell’utilizzo a servizio dell’uomo dei risultati conseguiti».

Infine, nel 2001, la Congregazione per la Dottrina della Fede, presieduta dal card. Joseph Ratzinger, dichiarava solennemente che «si possono attualmente considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali e prudenziali, che hanno determinato la promulgazione del Decreto Post obitum», e «ciò a motivo del fatto che il senso delle proposizioni, così inteso e condannato dal medesimo Decreto, non appartiene in realtà all’autentica posizione di Rosmini, ma a possibili conclusioni della lettura delle sue opere» (§ 7).

Nel febbraio 1994 la Congregazione per le Cause dei Santi comunicava al superiore generale dell’Istituto della Carità che da parte della Santa Sede «non ostava» si desse inizio alla Causa di beatificazione del Servo di Dio Antonio Rosmini.

Dopo la Nota dottrinale del 2001, non esistevano altri ostacoli seri per procedere: pertanto, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II la causa diocesana passava a Roma e, dopo l’elezione al soglio di Benedetto XVI, quest’ultimo firmava il riconoscimento delle virtù eroiche e approvava che Rosmini venisse dichiarato “beato”, fissandone la memoria liturgica al 1° luglio.

Il 18 novembre 2007, nel Palazzetto dello Sport di Novara, il cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, presiedeva per conto del Papa la solenne cerimonia di beatificazione di Antonio Rosmini.

Si attende ora l’approvazione del miracolo che permetterà la canonizzazione.